Il dolore dopo l’intervento di protesi d’anca si riduce solitamente nell’arco di qualche settimana. Il persistere di questa sintomatologia deve innanzitutto escludere problematiche di ordine chirurgico come una lussazione, una mobilizzazione o un’infezione della protesi e la visita ortopedica con gli accertamenti radiologici e gli esami ematici possono documentare con sicurezza queste evenienze.

Altre cause di dolore possono essere:

la trocanterite: è dovuta alla sofferenza delle inserzioni tendinee della muscolatura dei glutei sul gran trocantere (cioè la parte superiore laterale esterna del femore) e provoca dolore alla regione laterale dell’anca. Spesso il dolore si irradia lungo la coscia, peggiora alla pressione e alla palpazione e durante il raggiungimento della stazione eretta da seduti. Può avvenire per una sofferenza tendinea già esistente in precedenza (ad es. artrosi dell’anca con debolezza della muscolatura glutea) o per un intervento riabilitativo insufficiente. La terapia farmacologica con i comuni analgesici-antiinfiammatori può essere accompagnata da terapie fisiche (sono indicate la tecarterapia e la laserterapia), ma solo dopo consenso dell’ortopedico che garantisca la compatibilità della protesi con questi trattamenti. Il ciclo riabilitativo è indicato per migliorare il il tono e il trofismo muscolare, per ridurre le contratture muscolari e per insegnare al paziente a compiere correttamente i cambiamenti di posizione, come alzarsi-sedersi, ad adottare sedute idonee, preferibilmente alte e rigide, e valutare l’utilità di un bastone durante il cammino per ridurre le sollecitazioni all’anca sofferente;

dolore all’anca durante il cammino nella fase di appoggio del piede: la differente lunghezza degli arti inferiori che sovente si presenta dopo un impianto di protesi d’anca va valutata accuratamente. Bisogna individuare eventuali patologie concomitanti, ad esempio la presenza di scoliosi con slivellamento del bacino, eventuali contratture muscolari dei muscoli flessori della coscia, una incompleta estensione del ginocchio, lo scorretto appoggio del piede. Una volta definita la causa, la riabilitazione è, nella maggioranza dei casi, la soluzione ideale; qualora la differenza di lunghezza degli arti fosse superiore a un centimetro, sarebbe indicato anche un rialzo per pareggiare la diversità;

cicatrice chirurgica: si tratta di tensione talvolta anche dolorosa, ma comunque costante e spiacevole, che compare al movimento ed è dovuta all’aderenza della parte profonda della cicatrice ai tessuti sottostanti. Il tessuto cicatriziale sottocutaneo è caratterizzato dall’essere disordinato, duro e poco elastico. Può inglobare o comprimere terminazioni nervose e giungere anche alla fascia muscolare sottostante e ai relativi muscoli, non consentendone il corretto scorrimento. Pertanto, durante il trattamento riabilitativo, deve essere contemplata la cura precoce della cicatrice chirurgica con manovre manuali che le consentano lo svincolamento dai tessuti sottostanti. Unica accortezza è che sia completa la guarigione della cicatrice e che non ci siano segni sospetti di infiammazione o infezione. La cicatrice chirurgica merita sempre di essere curata indipendentemente dalla sua età, l’unica controindicazione è il dolore alla manipolazione.

 

BIBLIOGRAFIA

  • Brotzman SB., Wilk KE. La riabilitazione in ortopedia Cap 6, Elsevier 2004
  • DeLisa JA. Rehabilitation Medicine, Lippincot Raven. 1998; 1677-1694
  • Paoletti S. Le fasce. Il ruolo dei tessuti nella meccanica umana 51-54, ESOMM 2003

L’articolazione della spalla è fra le più complesse e fra le più mobili del corpo. È anche quella che si muove maggiormente durante lo svolgimento delle attività quotidiane ed è questo il motivo per cui la spalla va incontro facilmente a usura e dolore. Le cause più frequenti in grado di determinare problemi sono sollecitazioni eccessive dovute a lavori impegnativi o ripetitivi, anche se di scarso impegno muscolare, come anche traumi o posture scorrette.
Tutti i componenti (ossa, cartilagini, legamenti, muscoli, tendini) possono essere responsabili nel determinare il quadro di “spalla dolorosa” che consiste appunto in un dolore che inizialmente compare al movimento e che pertanto, come risposta di difesa, viene evitato; la successiva e progressiva perdita della mobilità può provocare rigidità della spalla, contratture muscolari e postura errata. Il dolore inizialmente è ben localizzato, ma in seguito può irradiarsi al braccio, alla regione scapolare o alla base del collo.

La spalla può anche essere sede di dolore cosiddetto “riflesso” per sofferenza della colonna vertebrale a livello cervicale, come ad esempio nel caso dell’ernia discale cervicale che provoca la compressione delle radici nervose; questo tipo di dolore spesso è presente anche a riposo e si accompagna a debolezza del braccio e formicolii alla mano.

Altre strutture anatomiche che possono provocare dolore alla spalla sono i muscoli (trapezio, gran dorsale e gran pettorale) per una contrattura, un trauma o dopo un periodo prolungato di immobilità (ad esempio dopo utilizzo di un reggibraccio o di un apparecchio gessato o di bendaggi costrittivi, come avviene per le fratture o le lussazioni dell’arto superiore).

In caso di dolore alla spalla, gli esami che conducono alla diagnosi sono l’ecografia e la radiografia, utili per documentare lo stato di alterazione dei componenti dell’articolazione. L’esame più accurato resta la risonanza magnetica che definisce nel particolare l’entità delle degenerazioni.

I trattamenti sono:

-farmacologici: i comuni antidolorifici somministrabili per bocca o intramuscolo, i cortisonici e l’acido ialuronico somministrabili localmente per via infiltrativa;

-terapie fisiche quali laserterapia, tecarterapia, ultrasuoni, per migliorare la condizione infiammatoria locale, la sintomatologia dolorosa e le contratture muscolari e le onde d’urto in caso di calcificazioni dei tendini;

-rieducazione motoria per recuperare le libertà articolari, migliorare/mantenere il tono muscolare, assumere posture corrette e soprattutto liberarsi dagli schemi di movimento patologici.

-trattamento chirurgico, che può essere svolto anche in artroscopia, ma che è da riservare a casi di lesioni o degenerazioni gravi che non possono trarre beneficio dai trattamenti conservativi.

 

BIBLIOGRAFIA

  • Brotzman SB., Wilk KE. La riabilitazione in ortopedia Cap 3, Elsevier 2004
  • DeLisa JA. Rehabilitation Medicine, Lippincot Raven. 1998; 435-437
  • Zati A., Valenti A. Terapia fisica. Nuove tecnologie in medicina riabilitativa, Minerva Medica. 2017

Il dolore cronico al tratto cervicale della colonna vertebrale può essere determinato fondamentalmente da tre cause: artrosi, traumi e posture scorrette.

L’artrosi è un processo degenerativo cronico che comporta la progressiva deformazione delle articolazioni caratterizzata dalla riduzione dello spazio tra i capi articolari e sofferenza del disco intervertebrale, usura delle cartilagini, rigidità dei legamenti.

Tra i traumi più comuni vanno menzionati il “colpo di frusta” da incidente stradale ma anche, e molto più subdoli, i traumi piccoli e ripetuti nel tempo che provocano anomale sollecitazioni e compressioni.

Possono essere assunte posture scorrette durante lo studio, l’attività lavorativa e anche durante quella ricreativa, in particolare quella che richiede l’uso di schermi (pc, videogiochi, televisione). Anche sistemi di riposo (materassi e guanciali) non esattamente strutturati possono contribuire ad assumere posture scorrette.

In ogni caso, le conseguenze sono:

– la progressiva riduzione dei movimenti articolari,

– la percezione dolorosa dapprima al movimento e in seguito anche a riposo,

– le contratture muscolari a carico dei muscoli più superficiali e di quelli più piccoli e profondi che collegano una vertebra all’altra e che contraendosi ripetutamente divengono duri e poco elastici

– la variazione della normale curvatura della colonna cervicale.

L’iniziale quadro clinico può aggravarsi nell’arco di qualche settimana o mese: può manifestarsi un vero e proprio dolore percepito come una compressione, una pugnalata o una sensazione di bruciore. Il dolore si può irradiare alla regione occipitale, ovvero la porzione postero-inferiore della testa, ad una o entrambe le spalle fino a coinvolgere il braccio oppure ancora si può propagare lungo la colonna vertebrale.

Le caratteristiche del dolore (tipo, intensità, momento della giornata in cui è maggiormente percepito, attività o posture che lo scatenano o lo migliorano, miglioramento con caldo o freddo, beneficio da farmaci) e la presenza di altri sintomi (ad esempio nausea, vertigini, formicolio alla mano) sono indizi importanti che vanno riferiti al medico per consentirgli di fare la diagnosi corretta e prescrivere gli eventuali accertamenti radiologici e specialistici (visita oculistica e/o odontoiatrica) e la terapia più idonea.

Gli esami standard sono le radiografie che permettono di visualizzare le vertebre singolarmente e nel loro insieme. Invece, nei casi in cui si sospetti un coinvolgimento di strutture non scheletriche (dischi intervertebrali, radici nervose, midollo spinale, legamenti) gli esami più indicato sono RMN (risonanza magnetica nucleare) o TAC (tomografia assiale computerizzata). Altro accertamento utile, qualora si sospetti un coinvolgimento delle radici nervose, è l’elettromiografia che fornisce indicazioni precise riguardo l’entità della sofferenza dei nervi.

Il primo passo terapeutico è farmacologico: comprende dai comuni analgesici fino ai cortisonici e agli oppioidi. Fa seguito il trattamento riabilitativo con terapie fisiche (TENS, ultrasuoni, tecarterapia, laserterapia, ecc.), ma soprattutto la fisiochinesiterapia che oltre a migliorare il movimento riduce le contratture muscolari e migliora la postura. È peraltro indispensabile che il paziente sia correttamente indirizzato a svolgere attività motoria e/o sportiva con le cautele del caso, che adotti misura preventive durante il lavoro e durante il riposo in particolare il guanciale che deve essere di consistenza media e che sostenga dalla base del collo a tutto il capo.

 

BIBLIOGRAFIA

  • DeLisa JA. Rehabilitation Medicine, Lippincot Raven. 1998; 636-638
  • Donatelli RA. Terapia fisica della spalla, UTET. 1999
  • Travell JG., Simons DG. Dolore muscolare Diagnosi e terapia, Ghedini Editore. 1996; vol 1- cap 15-16
  • Zati A., Valenti A. Terapia fisica. Nuove tecnologie in medicina riabilitativa, Minerva Medica. 2017

La stenosi del canale vertebrale è un restringimento dello spazio che accoglie il midollo spinale e le radici nervose provocandone la sofferenza. La causa più frequente è l’artrosi, raramente la malattia è congenita, cioè presente dalla nascita, spesso è la combinazione di entrambe; altre cause possono essere: ernie discali, esiti di traumi o fratture vertebrali, lavori pesanti (ad esempio sollevamento di pesi), scoliosi, conseguenze di interventi chirurgici, infezioni, malattie neoplastiche. Il tratto cervicale ma soprattutto quello lombare sono quelli maggiormente interessati ed i sintomi sono la conseguenza della compressione delle radici spinali che emergono da quella porzione di midollo, sono localizzati rispettivamente agli arti superiori e inferiori ed il più delle volte insorgono progressivamente. I pazienti riferiscono formicolii, debolezza e dolori agli arti cui si associano frequentemente dolore al collo o alla schiena. In particolare, se il restringimento è localizzato al tratto lombare, un indizio importante per la diagnosi è la cosiddetta “zoppia” che compare durante il cammino: è dovuta a dolore e debolezza ad uno o ad entrambi gli arti inferiori, e migliora stando seduti o piegandosi in avanti.

Gli esami che conducono alla diagnosi sono la TAC, la RMN e l’elettromiografia che sono in grado di documentare l’entità del restringimento e la gravità del danno dei nervi interessati.

Il trattamento può essere chirurgico o conservativo.

Il trattamento chirurgico consente di migliorare la compressione delle strutture nervose contenute nel canale vertebrale e contemporaneamente ridurre i sintomi. Viene effettuato in caso di stenosi grave o importante sintomatologia e inefficacia delle terapie conservative.

I trattamenti conservativi sono:

-farmacologici: somministrabili per bocca o intramuscolo ma anche per via infiltrativa, vengono impiegati i comuni antidolorifici, i miorilassanti, i cortisonici, gli integratori cosiddetti “neurotrofici” che favoriscono la ripresa della funzionalità del nervo;

-riabilitativi: comprendono le terapie fisiche (TENS, ultrasuoni, laserterapia, tecarterapia) per migliorare la sintomatologia dolorosa e le contratture muscolari e la rieducazione motoria per assumere posture corrette, migliorare/mantenere il tono muscolare e le libertà articolari, addestrare il paziente affinché dopo il ciclo di trattamento effettuato con il fisioterapista, possa proseguire in autogestione a domicilio; è utile anche individuare l’eventuale necessità di utilizzare un corsetto o un collare, un bastone o un quadripode per migliorare il dolore e facilitare gli spostamenti;

-stile di vita: mantenimento del giusto peso corporeo, cessazione del fumo, ridurre l’apporto di sale e zuccheri, svolgere una leggera attività sportiva, in particolare la bicicletta perché la lieve flessione del tronco è ben tollerata da questi pazienti.

 

BIBLIOGRAFIA

  • Brotzman SB., Wilk KE. La riabilitazione in ortopedia Cap 3, Elsevier 2004; 586-588
  • Zati A., Valenti A. Terapia fisica. Nuove tecnologie in medicina riabilitativa, Minerva Medica. 2017

Gentilissimi,

in quest’ultima risposta ho deciso di porre l’attenzione su un tema da voi non espressamente verbalizzato: la frustrazione di vivere con il dolore cronico.

Come abbiamo già sottolineato in altre risposte, il dolore destabilizza a livello emotivo, e alcune di queste componenti possono peggiorare la percezione dolorifica. Chi soffre di dolore cronico può avere la sensazione di non essere ben curato, di essere trascurato, di non sentirsi realmente capito nella sofferenza e addirittura di non essere preso sul serio.

Questo senso di frustrazione in alcuni casi si può trasformare in vera e propria rabbia. Tale rabbia il più delle volte è repressa (la cosiddetta ruminazione); il problema è che se viene trattenuta troppo a lungo, può sfociare in veri e propri scoppi d’ira incontrollata, nei tempi e nei modi meno appropriati e spesso verso persone che non c’entrano nulla con la frustrazione di base. Manifestare tale aggressività genera facilmente sensi di colpa, peggiora l’auto-svalutazione, la depressione, l’ansia e quindi aggrava a sua volta il senso di frustrazione.

Come possiamo quindi interrompere questo circolo vizioso?

La cosa più importante è sicuramente riuscire ad esprimere le proprie emozioni negative; infatti è stato dimostrato che provare rabbia, senza poterne parlare, può aumentare la quantità di dolore percepito. Il dott. John Sarno, medico di fama internazionale per la cura del dolore alla schiena ha fatto un interessante esperimento: ad alcuni pazienti affetti da lombalgia ha dato il compito di risolvere un labirinto al pc, in realtà non veniva dato loro la possibilità di completarlo perché venivano bruscamente interrotti. Alla metà di questi pazienti è stato impedito di manifestare la propria frustrazione e rabbia nel non aver potuto completare il gioco. Cosa ha scoperto il Dott. Sarno? Che coloro che non avevano potuto esprimere tali sentimenti mostravano più alti livelli di tensione muscolare e dolore.

Quindi, pur sapendo che a volte può essere molto difficile gestire la frustrazione, è fondamentale non rimanere intrappolati nella paura del dolore. Per uscirne, è dunque necessario fare un passo alla volta. Oltre a seguire le indicazioni dei curanti, è quindi importante praticare attività fisica (che fa bene al corpo e alla mente), individuare tecniche, concordate proprio con il medico curante, che possono aiutare il rilassamento, e trovare degli spazi e modalità per poter esprimere le proprie emozioni in modo che la rabbia non abbia il sopravvento e che quindi possa peggiorare il dolore cronico.

 

Non consultarti con le tue paure, ma con le tue speranze e i tuoi sogni. Non pensate alle vostre frustrazioni, ma al vostro potenziale irrealizzato. Non preoccupatevi per ciò che avete provato e fallito, ma di ciò che vi è ancora possibile fare.

Papa Giovanni XXIII

BIBLIOGRAFIA

  • Burke AL, Mathias JL, Denson LA. Psychological functioning of people living with chronic pain: a meta-analytic review. Br J Clin Psychol. 2015 Sep;54(3):345-60
  • Neumann R. The causal influences of attributions on emotions: a procedural priming approach. Psychol Sci. 2000 May;11(3):179-82.
  • Morley S, Davies C, Barton S. Possible selves in chronic pain: self-pain enmeshment, adjustment and acceptance. Pain. 2005 May;115(1-2):84-94.
  • Trost Z, Vangronsveld K, Linton SJ, Quartana PJ, Sullivan MJL. Cognitive dimensions of anger in chronic pain. Pain. 2012 Mar;153(3):515-517.
  • Sarno, Curare la mente per guarire il dolore, Cesena, Macroedizioni, 2014

Gentilissimi,

in molti mi avete fatto domande inerenti alla fibromialgia, chiedendone la cura oltre che le strategie più idonee per affrontare il dolore correlato a  questa sindrome.

Partiamo dallo spiegare cosa è questa malattia. L’esistenza della fibromialgia è nota fin dai primi anni del ‘900. È una sindrome caratterizzata da dolore diffuso, rigidità muscolare, depressione, stanchezza e disturbi del sonno. La sua incidenza è intorno al 5% della popolazione. Anche se l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha incluso la fibromialgia nelle malattie reumatiche, non è ancora chiara quale sia la causa di questa malattia.

I trattamenti sono molti: dall’uso di terapie analgesiche ai farmaci antidepressivi. Tali terapie possono ridurre il dolore e migliorare la qualità della vita, ma ad oggi una vera e propria cura specifica per la fibromialgia non esiste.

Pertanto come si può gestire questa malattia? Oltre ai trattamenti farmacologici proposti, molti studi scientifici sottolineano che l’integrazione di pratiche che creano un dialogo tra mente e corpo, possono alleviare in maniera significativa i sintomi della fibromialgia. Infatti se è vero che non si conosce la causa primaria della fibromialgia, risulta chiaro come le componenti emotive e quelle fisiche si influenzano reciprocamente.

È ormai riconosciuto quanto sia importante prendersi cura del proprio corpo. L’attività fisica infatti migliora lo stato emotivo aumentando i livelli di endorfina e di serotonina (il neurotrasmettitore “della felicità”, che viene aumentato quando si assumono antidepressivi); e parallelamente i problemi corporei possono peggiorare lo stato d’ansia e il tono dell’umore.

Alcuni studi sulla fibromialgia hanno infatti rilevato che esercizi aerobici, esercizi di resistenza per il rafforzamento muscolare ed esercizi di stretching  migliorino la funzione fisica, la rigidità muscolare, il senso di affaticamento e la qualità della vita.

Sembrano utili anche i massaggi fisici, in quanto influiscono positivamente sui sintomi ansioso/depressivi, sulla percezione dolorifica e la rigidità muscolare.

Esistono poi alcune pratiche che hanno proprio la funzione di stimolare l’armonizzazione tra mente e corpo. Tra queste la  Mindfullness è tra le più applicate anche nel trattamento della fibromialgia. Tale tecnica ha come scopo quello di “porre l’attenzione in un modo particolare: intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante” incrementando la consapevolezza di se stessi e la capacità concentrazione sul qui e ora.

Alcuni studi sulla fibromialgia suggeriscono come anche lo Yoga sia efficace per ridurre i sintomi dolorifici, l’affaticamento, la rigidità muscolare e indurre un miglioramento sia dell’ansia che della depressione.

Da questa breve carrellata di suggerimenti, risulta chiaro che l’associazione di altri trattamenti a quelli medici, può favorire un miglioramento dello stato fisico ed emotivo. Esiste una pratica migliore dell’altra? No, è utile che chi soffre di questa malattia individui quella più adatta a sé.

La cosa più importante quindi è non cedere alla frustrazione del pensiero “non guarirò mai”, ma crearsi dei piccoli obiettivi, che possano ridurre il dolore. Se c’è una cosa che il dolore cronico può insegnare è che bisogna ascoltare se stessi, capire i propri bisogni e soprattutto non dimenticare di ascoltarli.

 

La felicità è benefica per il corpo, ma è il dolore che sviluppa i poteri della mente.

Marcel Proust

 

BIBLIOGRAFIA

  • Inanici, F.F., Yunus, M.B. History of fibromyalgia: Past to present. Current Science Inc 8, 369–378 (2004).
  • Clauw DJ. Fibromyalgia: A Clinical Review. JAMA. 2014;311(15):1547–1555
  • Heidari, F., Afshari, M. & Moosazadeh, M. Prevalence of fibromyalgia in general population and patients, a systematic review and meta-analysis. Rheumatol Int 37, 1527–1539 (2017).
  • Araújo FM, DeSantana JM. Physical therapy modalities for treating fibromyalgia. F1000Res. 2019 Nov 29;8:F1000 Faculty Rev-2030.
  • Adler-Neal AL, Zeidan F. Mindfulness Meditation for Fibromyalgia: Mechanistic and Clinical Considerations. Curr Rheumatol Rep. 2017 Sep;19(9):59.
  • Kabat-Zinn J (2003). Mindfulness-based interventions in context: past, present and future. Clinical Psychology: Science and Practice 10, 144-156.
  • Carson JW, Carson KM, Jones KD, Mist SD, Bennett RM. Follow-up of yoga of awareness for fibromyalgia: results at 3 months and replication in the wait-list group. Clin J Pain. 2012 Nov-Dec;28(9):804-13.

Gentilissimi,

in molte vostre domande sono emersi due aspetti fortemente collegati tra loro: il pensiero fisso, quasi ossessivo, sul dolore (“non riesco a pensare ad altro”), e la paura ricorrente del non sapere “cosa è giusto fare e cosa è meglio non fare”.

Chi soffre di dolore cronico ha spesso il pensiero focalizzato su esso. Infatti, la preoccupazione esiste non solo quando il dolore è fisicamente avvertito, ma anche in sua assenza, nell’attesa/timore che si possa ripresentare. Si hanno continui dubbi che ogni azione quotidiana possa peggiorare lo stato fisico: “come posso piegarmi? posso camminare? è il modo giusto di mettere la gamba/il braccio? la postura è corretta? ho forse esagerato? dovrei fare di più?…”

Questi pensieri, che tra l’altro possono aumentare lo stato ansioso, peggiorando quindi la percezione dolorifica (cfr. articolo 1), creano chiaramente un grande sconforto. Più sono presenti, più si ha la percezione di “non avere in mano la propria vita”, quasi come se si perdesse la propria identità.

Come si può prevenire o evitare questi pensieri? Innanzitutto, è importante sapere che non si può decidere di “non pensare”. Se noi pensiamo “non devo pensarci”, in realtà, rafforziamo di più quella determinata idea, incrementando quindi il senso di frustrazione. Quindi cosa si deve fare?

1) Avere una conoscenza del dolore, quindi chiedere con chiarezza al medico curante quali sono i movimenti da evitare. Non si deve mai avere paura di fare qualche domanda in più.

2) Focalizzare il pensiero su “ciò che possiamo fare”, invece che “su cosa non siamo più in grado di fare”, cioè individuare le cosiddette capacità residue. È utile infatti attuare tutti quei comportamenti che non peggiorano la situazione clinica e che parallelamente non ci fanno chiudere in noi stessi; il dolore (e la paura del dolore) talvolta fa attuare dei comportamenti ben più limitanti di quanto il sintomo imporrebbe. Questo modo di agire, attraverso un circolo vizioso, genera isolamento, autosvalutazione e addirittura sintomi depressivi.

3) Conoscere e accettare i propri limiti. Se si ha la tendenza all’iperattività, è utile organizzare la propria giornata in maniera dettagliata. È fondamentale usare le energie in modo adeguato e saper ascoltare il proprio corpo. Se invece si ha la tendenza alla chiusura, e alla scarsa attività fisica, vale la pena programmare la giornata dandosi dei piccoli compiti, cercando di rimanere attivi.

Pertanto, l’obiettivo è evitare di identificarsi con il dolore. Il pensare “io non sono il mio dolore” è punto importantissimo. Bisogna infatti comprendere che il dolore esiste, ma è solo una parte di sé. È fondamentale lavorare sulle capacità residue e potenziarle, solo così ci si potrà dare l’opportunità di individuare nuove e inaspettate risorse.

 

Niente nella vita deve essere temuto, deve solo essere capito. Adesso è il tempo di capire di più, così che possiamo temere di meno. 

Marie Curie

 

BIBLIOGRAFIA

  • Gaetani P et al, Il grande libro del mal di schiena. Prevenire e curare il dolore, per continuare a condurre una vita normale. Milano: Sonzogno 2005
  • Leadley RM(1), Armstrong N, Reid KJ, Allen A, Misso KV, Kleijnen J Healthy aging in relation to chronic pain and quality of life in Europe. Pain Pract. 2014 Jul;14(6):547-58.
  • Khouzù RH. Chronic pain and its management in primary care. South Bed J 2000; 93:946-52
  • Lamé IE, Peters ML, Vlaeyen JW, Kleef Mv, Patijn J. Quality of life in chronic pain is more associated with beliefs about pain, than with pain intensity. Eur J Pain. 2005 Feb;9(1):15-24.

Gentilissimi,

in molti mi avete fatto domande in merito a come gestire l’ansia e le variazioni di tono dell’umore legato al dolore cronico.

È utile in primo luogo fare delle precisazioni. Il dolore cronico implica moltissime trasformazioni di stile di vita. Spesso accade che gesti e movimenti considerati naturali diventano difficoltosi se non impossibili. Inevitabilmente tali cambiamenti possono interferire sull’attività lavorativa, indurre a dover rinunciare ad alcuni interessi e addirittura generare modificazioni delle relazioni familiari e amicali. Trovarsi di fronte a tutto questo peggiora la qualità della vita, e può facilmente generare alterazioni del tono dell’umore e disturbi d’ansia. Le manifestazioni di questi due disturbi sono molteplici. La depressione infatti non è solo caratterizzata, come in molti credono, da tristezza ma anche da apatia (appiattimento affettivo), abulia (sensazione di inerzia e mancanza di volontà), anedonia (perdita dell’interesse per attività comunemente ritenute piacevoli), sensazione di affaticamento mentale e fisico, e sentimenti di autosvalutazione. L’ansia a sua volta non si manifesta solo con momenti di agitazione e angoscia, ma si può rilevare attraverso dei sintomi inattesi: affanno, aumento del ritmo respiratorio, vertigini, manifestazioni gastro-intestinali (mal di stomaco, nausea, colite, diarrea…) e anche dolori muscolari (ipersensibilità, contratture…) e articolari.

A volte i disturbi emotivi appaiono così prevalenti da far sottostimare la componente organica del dolore, come se fosse “tutto nella testa”. Invece è utile avere ben presente che il dolore fisico aggrava la componente emotiva e quest’ultima peggiora a sua volta la percezione dolorifica, generando un vero e proprio circolo vizioso.

Per questo è fondamentale affrontare il dolore non soltanto da un punto di vista fisico (che deve necessariamente essere diagnosticato e trattato) ma anche dal punto di vista emotivo. Infatti per ridurre la percezione dolorifica è fondamentale considerare i sintomi psicologici e in caso di presenza di ansia e/o depressione chiedere un supporto specialistico adeguato.

 

L’ansia non svuota il domani dai suoi dolori, ma svuota soltanto l’oggi dalla sua forza. 

Charles Spurgeon

 

BIBLIOGRAFIA

  • Ohayon MM, Schatzberg AF Using chronic pain to predict depressive morbidity in the general population.
  • Arch Gen Psychiatry. 2003 Jan; 60(1):39-47.
  • Bair MJ, Robinson RL, Katon W, Kroenke K Depression and pain comorbidity: a literature review Arch Intern Med. 2003 Nov 10; 163(20):2433-45.
  • Aaron RV, Fisher EA, de la Vega R, Lumley MA, Palermo TM. Alexithymia in individuals with chronic pain and its relation to pain intensity, physical interference, depression, and anxiety: a systematic review and meta-analysis.  2019;160(5):994-1006.
  • Walker AK, Kavelaars A, Heijnen CJ, Dantzer R. Neuroinflammation and comorbidity of pain and depression. Pharmacol Rev. 2013 Dec 11;66(1):80-101.